Il 3 ottobre del 2005 Eurostat lanciava l’allarme sul rischio povertà per le popolazioni europee. Tra queste, uno dei paesi più a rischio risultava essere l’Italia con un dato spaventoso, il 42,5% della popolazione era a rischio povertà negli anni a venire.
Nel 2005 i dati erano già così allarmanti che Eurostat indicava in “interventi e misure di sostegno al reddito” gli strumenti necessari per arginare questo pericoloso abisso sociale.
Ad oggi i dati sulla povertà continuano a non confortarci e quegli anni che allora dovevano venire, oggi si presentano con tutta la loro drammaticità e mostrano come, nel prossimo futuro, quali rischi ci appresteremo a vivere se non riusciamo sin da subito ad intervenire con misure quali appunto un reddito garantito.
Ma quale giovane precario?
Prendiamo un “non più giovane precario” (culturalmente si tende ancora ad immaginare i precari solo in quanto giovani) di circa 45 anni e che dunque negli anni trascorsi (fine 80 e anni 90) è stato quel soggetto inserito nella grande trasformazione del mercato del lavoro in qualità di lavoratore flessibile e precario. Questa persona che potremmo definire “precario di prima generazione” ha accumulato lavori diversi, salari diversi, contratti diversi. Oggi questo soggetto che ha 45 anni non si trova più nella facilità di passare da un lavoro ad un altro, viene “emarginato” anche rispetto alle disponibilità di lavori più dequalificati e dequalificanti, anche la sua “capacità” di muoversi dentro un mercato del lavoro flessibile viene meno. Il suo curriculum è fatto di diverse azioni, di diverse competenze, di diversi settori, un curriculum schizofrenico che racconta di una vita appunto legata più alle occasionalità dei lavori che ad un’unica posizione specifica. Certo, i più fortunati hanno un curriculum che si muove forse dentro “aree lavorative” o settori di riferimento (le ICT per esempio) ma magari con mansioni diverse e tempi esperenziali diversi e che non sempre somigliano alle attuali (prendete ad esempio le competenze necessarie per sviluppare i moderni software tele comunicativi).
Quel 45enne, con la nuova riforma andrà in pensione a 66 anni (presumiamo, non senza dedicare un ghigno un po’ ironico, poichè tra qualche anno un'altra riforma ci potrebbe dire che andrà in pensione a 70\72 anni). Ma quali saranno i calcoli da fare, quali le opportunità che potrà afferrare in un mercato del lavoro così selvaggio, senza garanzia e senza possibilità di volta in volta ad essere “assumibile” dentro la “fluidità e le fluttuazioni” delle opportunità di lavoro nel prossimo presente? Altro che pensione, il problema è come affrontare la quotidianità di un eterno oggi.
Avremmo dunque un soggetto che senza una garanzia, senza più le energie del suo essere stato a venti o trenta anni “precario di prima generazione”, con un’infinita disponibilità in meno di poter essere occupato. Con una infinita disponibilità in meno, proprio in riguardo alla sua dignità personale, cadrà con molta probabilità in quella schiera già ampia dei nuovi poveri.
Fine del welfare familistico
Parliamoci chiaro, il ritardo accumulato dal nostro paese nell’avviare strumenti di reddito minimo garantito universali, e la delega sostanziale di occuparsi da parte della famiglia di una redistribuzione del risparmio dimostra come i prossimi tempi saranno più che drammatici per milioni di persone. Inoltre, le misure di ‘contrasto alla crisi’ in atto, in particolare con queste ultime finanziarie, colpiscono proprio l‘ultimo anello, già debole, del risparmio familiare, di quella catena che ha retto faticosamente il peso dello smembramento del lavoro e dei diritti negli anni ormai trascorsi, aiutandoci a comprendere subito in quale drammatico scenario siamo entrati da tempo e dentro quale scenario con effetti ancora più devastanti ci apprestiamo a scivolare.
L’aumento dell’Iva avrà effetto immediato sui beni di consumo di prima necessità, l’ICI sulla prima casa, le tasse locali e le altre forme di tassazione per le spese eroderanno ancora di più quel livello di redistribuzione familiare che colpirà in primis figli e nipoti precari che non potranno più contare su quel minimo indispensabile quando i tempi si fanno neri. Se a questo sommiamo il fatto che molti “precari di
prima generazione”, raggiunta l’età degli ormai 40 anni, hanno deciso che “andando così il mondo in qualche modo bisogna pur vivere” avranno deciso di fare un figlio, si sono voluti assumere il rischio di un mutuo per una casa (visto il costo degli affitti), magari sostenuti in prima battuta proprio dai genitori pensionati (gli unici in grado di garantire ad una banca la richiesta di un mutuo) si capisce in quale baratro si sta scivolando.
Nel 2030, quando il nostro 45enne avrà finalmente l’età per andare in pensione, con i lavori che non ha mai potuto fare, con i contributi che non avrà mai potuto versare, come farà a sostenere il proprio figlio (che oggi potrebbe essere già il 15enne della neet generation) come al contrario fecero i suoi genitori? Ed ancora, le mutazioni delle composizioni della famiglia italiana avvenute in questi anni, rendono già oggi difficile il mantenimento della catena solidaristica familistica. Inoltre non vanno dimenticate le forme di solidarietà sociale, figlie della vecchia classe operaia, che oggi vengono meno proprio a fronte di una scomposizione e di una frammentazione che non garantisce altro esito che solitudini inquietanti disegnando una nuova “folla solitaria” in cerca di opportunità di sopravvivenza oltre le definizioni sociologiche di giovani e meno giovani, o di garantiti e non garantiti. Con il rischio, già evidente nella vulgata dell “immigrato che ruba il lavoro” che dentro questa folla solitaria si inneschi la legge della giungla per accaparrarsi quelle poche occasioni di sopravvivenza che si presentano.
Una folla solitaria fatta di milioni di pensionati o anziani di oggi, i cassaintegrati che tra poco non avranno alcuna forma di sostegno, i precari di prima generazione (quelli tra i 35\50 anni), i precari di seconda generazione (quelli tra i 20\35 anni), la generazione neet (tra i 14\25 anni), le donne con figli, le famiglie con almeno due figli ed uno stipendio, i disabili, gli invalidi da lavoro, i detenuti o ex detenuti, gli immigrati, le figure operaie ormai in dismissione, gli informatici non più spendibili sul mercato perché con competenze ormai arretrate. Se a questa “folla solitaria” dovessimo sommare appunto la generazione neet che nel 2006 contava 860mila giovani e nel 2011 arriva ad oltre 2milioni e mezzo di individui lo scenario, che oggi ci racconta del domani è drammatico. Forse non arriviamo alle cifre indicate dall’Eurostat ma il numero crescente dei nuovi poveri, della massa di persone che vivranno o vivono sotto la soglia della povertà o nella povertà assoluta è allarmante e certo rischia di rendere plausibile la nota proposta dall’ente di statistica europeo del 42% della popolazione a rischio.
Una schiera che si allarga a dismisura, diventando sempre più ampia ed incorporando i nuovi giovani precari, quelli che possiamo definire i “precari di seconda generazione”, costruendo una nuova sedimentazione di precarietà esistenziale e poi di povertà strutturale e che si “ricompongono” non dentro lo sviluppo e la partecipazione ad una società, ma dentro una sorta di “enclave” delle nuove povertà.
La questione è estremamente seria, necessita di un intervento immediato, e ogni giorno che passa non fa altro che aumentare il disastro sociale che stiamo vivendo.
Fare presto
Ma bisogna iniziare subito, a partire dall’introduzione di una misura di reddito garantito, che sia individuale e che garantisca almeno una soglia economica sotto la quale nessuno deve più cadere. Un reddito minimo, fosse anche in prima battuta dentro una versione di ultima istanza, sganciata dal lavoro, cioè non condizionato. Un reddito garantito dunque come misura per la dignità della persona, come sostegno alla sua inclusione nella società e come forma di partecipazione ed inclusione sociale oltre il “lavoro formale”.
La questione del reddito garantito dunque oggi va affrontato con urgenza, i ritardi anche rispetto a quelle misure che molti paesi europei hanno da tempo è enorme. Cosi come è evidente che accanto a questa misura deve iniziare al più presto un grande piano di politica per la casa che rimetta al centro il diritto ad abitare e la facilità di potersi spostare dentro e fuori le città. Se è la crescita che molti indicano come toccasana per la fuoriuscita dalla crisi, questa non può avvenire se non si dotano le persone, i cittadini di quei diritti basici (reddito, casa, trasporti etc.) che gli permettono di affrontare con qualità, dignità e serenità quella quotidiana drammaticità che invece li relega oggi ad essere soggetti ricattabili, non in grado di investire sul futuro perché non in grado di investire sul presente.
Enrico Manfredi- coodinatore SEL Collegno
Nel 2005 i dati erano già così allarmanti che Eurostat indicava in “interventi e misure di sostegno al reddito” gli strumenti necessari per arginare questo pericoloso abisso sociale.
Ad oggi i dati sulla povertà continuano a non confortarci e quegli anni che allora dovevano venire, oggi si presentano con tutta la loro drammaticità e mostrano come, nel prossimo futuro, quali rischi ci appresteremo a vivere se non riusciamo sin da subito ad intervenire con misure quali appunto un reddito garantito.
Ma quale giovane precario?
Prendiamo un “non più giovane precario” (culturalmente si tende ancora ad immaginare i precari solo in quanto giovani) di circa 45 anni e che dunque negli anni trascorsi (fine 80 e anni 90) è stato quel soggetto inserito nella grande trasformazione del mercato del lavoro in qualità di lavoratore flessibile e precario. Questa persona che potremmo definire “precario di prima generazione” ha accumulato lavori diversi, salari diversi, contratti diversi. Oggi questo soggetto che ha 45 anni non si trova più nella facilità di passare da un lavoro ad un altro, viene “emarginato” anche rispetto alle disponibilità di lavori più dequalificati e dequalificanti, anche la sua “capacità” di muoversi dentro un mercato del lavoro flessibile viene meno. Il suo curriculum è fatto di diverse azioni, di diverse competenze, di diversi settori, un curriculum schizofrenico che racconta di una vita appunto legata più alle occasionalità dei lavori che ad un’unica posizione specifica. Certo, i più fortunati hanno un curriculum che si muove forse dentro “aree lavorative” o settori di riferimento (le ICT per esempio) ma magari con mansioni diverse e tempi esperenziali diversi e che non sempre somigliano alle attuali (prendete ad esempio le competenze necessarie per sviluppare i moderni software tele comunicativi).
Quel 45enne, con la nuova riforma andrà in pensione a 66 anni (presumiamo, non senza dedicare un ghigno un po’ ironico, poichè tra qualche anno un'altra riforma ci potrebbe dire che andrà in pensione a 70\72 anni). Ma quali saranno i calcoli da fare, quali le opportunità che potrà afferrare in un mercato del lavoro così selvaggio, senza garanzia e senza possibilità di volta in volta ad essere “assumibile” dentro la “fluidità e le fluttuazioni” delle opportunità di lavoro nel prossimo presente? Altro che pensione, il problema è come affrontare la quotidianità di un eterno oggi.
Avremmo dunque un soggetto che senza una garanzia, senza più le energie del suo essere stato a venti o trenta anni “precario di prima generazione”, con un’infinita disponibilità in meno di poter essere occupato. Con una infinita disponibilità in meno, proprio in riguardo alla sua dignità personale, cadrà con molta probabilità in quella schiera già ampia dei nuovi poveri.
Fine del welfare familistico
Parliamoci chiaro, il ritardo accumulato dal nostro paese nell’avviare strumenti di reddito minimo garantito universali, e la delega sostanziale di occuparsi da parte della famiglia di una redistribuzione del risparmio dimostra come i prossimi tempi saranno più che drammatici per milioni di persone. Inoltre, le misure di ‘contrasto alla crisi’ in atto, in particolare con queste ultime finanziarie, colpiscono proprio l‘ultimo anello, già debole, del risparmio familiare, di quella catena che ha retto faticosamente il peso dello smembramento del lavoro e dei diritti negli anni ormai trascorsi, aiutandoci a comprendere subito in quale drammatico scenario siamo entrati da tempo e dentro quale scenario con effetti ancora più devastanti ci apprestiamo a scivolare.
L’aumento dell’Iva avrà effetto immediato sui beni di consumo di prima necessità, l’ICI sulla prima casa, le tasse locali e le altre forme di tassazione per le spese eroderanno ancora di più quel livello di redistribuzione familiare che colpirà in primis figli e nipoti precari che non potranno più contare su quel minimo indispensabile quando i tempi si fanno neri. Se a questo sommiamo il fatto che molti “precari di
prima generazione”, raggiunta l’età degli ormai 40 anni, hanno deciso che “andando così il mondo in qualche modo bisogna pur vivere” avranno deciso di fare un figlio, si sono voluti assumere il rischio di un mutuo per una casa (visto il costo degli affitti), magari sostenuti in prima battuta proprio dai genitori pensionati (gli unici in grado di garantire ad una banca la richiesta di un mutuo) si capisce in quale baratro si sta scivolando.
Nel 2030, quando il nostro 45enne avrà finalmente l’età per andare in pensione, con i lavori che non ha mai potuto fare, con i contributi che non avrà mai potuto versare, come farà a sostenere il proprio figlio (che oggi potrebbe essere già il 15enne della neet generation) come al contrario fecero i suoi genitori? Ed ancora, le mutazioni delle composizioni della famiglia italiana avvenute in questi anni, rendono già oggi difficile il mantenimento della catena solidaristica familistica. Inoltre non vanno dimenticate le forme di solidarietà sociale, figlie della vecchia classe operaia, che oggi vengono meno proprio a fronte di una scomposizione e di una frammentazione che non garantisce altro esito che solitudini inquietanti disegnando una nuova “folla solitaria” in cerca di opportunità di sopravvivenza oltre le definizioni sociologiche di giovani e meno giovani, o di garantiti e non garantiti. Con il rischio, già evidente nella vulgata dell “immigrato che ruba il lavoro” che dentro questa folla solitaria si inneschi la legge della giungla per accaparrarsi quelle poche occasioni di sopravvivenza che si presentano.
Una folla solitaria fatta di milioni di pensionati o anziani di oggi, i cassaintegrati che tra poco non avranno alcuna forma di sostegno, i precari di prima generazione (quelli tra i 35\50 anni), i precari di seconda generazione (quelli tra i 20\35 anni), la generazione neet (tra i 14\25 anni), le donne con figli, le famiglie con almeno due figli ed uno stipendio, i disabili, gli invalidi da lavoro, i detenuti o ex detenuti, gli immigrati, le figure operaie ormai in dismissione, gli informatici non più spendibili sul mercato perché con competenze ormai arretrate. Se a questa “folla solitaria” dovessimo sommare appunto la generazione neet che nel 2006 contava 860mila giovani e nel 2011 arriva ad oltre 2milioni e mezzo di individui lo scenario, che oggi ci racconta del domani è drammatico. Forse non arriviamo alle cifre indicate dall’Eurostat ma il numero crescente dei nuovi poveri, della massa di persone che vivranno o vivono sotto la soglia della povertà o nella povertà assoluta è allarmante e certo rischia di rendere plausibile la nota proposta dall’ente di statistica europeo del 42% della popolazione a rischio.
Una schiera che si allarga a dismisura, diventando sempre più ampia ed incorporando i nuovi giovani precari, quelli che possiamo definire i “precari di seconda generazione”, costruendo una nuova sedimentazione di precarietà esistenziale e poi di povertà strutturale e che si “ricompongono” non dentro lo sviluppo e la partecipazione ad una società, ma dentro una sorta di “enclave” delle nuove povertà.
La questione è estremamente seria, necessita di un intervento immediato, e ogni giorno che passa non fa altro che aumentare il disastro sociale che stiamo vivendo.
Fare presto
Ma bisogna iniziare subito, a partire dall’introduzione di una misura di reddito garantito, che sia individuale e che garantisca almeno una soglia economica sotto la quale nessuno deve più cadere. Un reddito minimo, fosse anche in prima battuta dentro una versione di ultima istanza, sganciata dal lavoro, cioè non condizionato. Un reddito garantito dunque come misura per la dignità della persona, come sostegno alla sua inclusione nella società e come forma di partecipazione ed inclusione sociale oltre il “lavoro formale”.
La questione del reddito garantito dunque oggi va affrontato con urgenza, i ritardi anche rispetto a quelle misure che molti paesi europei hanno da tempo è enorme. Cosi come è evidente che accanto a questa misura deve iniziare al più presto un grande piano di politica per la casa che rimetta al centro il diritto ad abitare e la facilità di potersi spostare dentro e fuori le città. Se è la crescita che molti indicano come toccasana per la fuoriuscita dalla crisi, questa non può avvenire se non si dotano le persone, i cittadini di quei diritti basici (reddito, casa, trasporti etc.) che gli permettono di affrontare con qualità, dignità e serenità quella quotidiana drammaticità che invece li relega oggi ad essere soggetti ricattabili, non in grado di investire sul futuro perché non in grado di investire sul presente.
Enrico Manfredi- coodinatore SEL Collegno
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